La scuola ha bisogno di aiuto

Quando ho iniziato a fare formazione nelle scuole, ero convinta di portare qualcosa di nuovo. Avevo quella cazzimma – e forse un po’ di supponenza – nel pensare: “Nessuno ci pensa a queste cose, ora li aiuto io”. Poi, la realtà mi ha rimessa al mio posto: ci pensano tutti, e anche tanto. Il problema non è la mancanza di idee, ma il tempo per metterle in pratica.

Ed è qui che la tecnologia diventa una risorsa fondamentale. Non solo come strumento per innovare la didattica, ma come facilitatrice del pensiero, come alleata per liberare tempo ed energie da dedicare a ciò che davvero ci piace. Perché la verità è che se dovessimo fare le cose solo perché “portano risultati”, probabilmente non faremmo nulla.

Lo stress, la frustrazione, la mancanza di riscontro dall’ambiente circostante spesso spezzano l’entusiasmo, e quando questo accade, anche la miglior formazione perde valore. È una dinamica che chi insegna conosce bene: inizi con energia, con la voglia di cambiare le cose, ma poi ti scontri con burocrazia, strumenti inadeguati, colleghi disillusi e studenti che, spesso, sembrano più impegnati a sopravvivere alla scuola che a viverla davvero. E piano piano, qualcosa si spegne. L’entusiasmo è una risorsa fragile. Se non trova terreno fertile, se non viene alimentato, finisce per svanire.

E non si tratta solo di motivazione personale, ma di un effetto a catena. Un insegnante che si sente svuotato difficilmente riuscirà a trasmettere curiosità, a rendere le lezioni coinvolgenti, a ispirare.

E gli studenti lo percepiscono subito: la passione non si insegna, si contagia.

Il problema è che, spesso, il sistema sembra fatto apposta per rendere difficile mantenere alta questa energia. Troppe ore spese in attività ripetitive, montagne di burocrazia, la sensazione che ogni idea innovativa sia un ostacolo più che un’opportunità. E qui torniamo alla tecnologia: non come semplice strumento di supporto, ma come possibilità concreta di recuperare tempo ed entusiasmo.

Se si potesse ridurre il carico mentale legato alla gestione pratica delle lezioni, contare su strumenti che semplificano la personalizzazione dell’insegnamento, meno vincoli inutili e più spazio per sperimentare, probabilmente la maggior parte dei docuenti nono arriverebbe alla fine della giornata con la sensazione di aver solo cercato di stare a galla.

L’energia che mettiamo nell’insegnare dipende anche da quanto riusciamo a riservarne per noi stessi. Se passiamo il tempo a rincorrere scadenze, a compilare moduli, a ripetere le stesse operazioni all’infinito, quando arriva il momento di fare la vera differenza – di connetterci con gli studenti, di accendere quella scintilla – rischiamo di essere già esausti.

E allora la domanda è: vogliamo continuare a disperdere energia in ciò che potrebbe essere automatizzato, oppure vogliamo trovare il modo di usare la tecnologia per recuperare tempo e testa per quello che conta davvero? Perché la qualità dell’insegnamento non dipende solo da quanto sappiamo, ma da quanta energia abbiamo da dare.

Come riconoscere un deepfake? Facile a dirsi, difficile a farsi. Alcuni segnali classici: movimenti degli occhi un po’ strani, sorrisi innaturali, illuminazione sospetta. Insomma, tutto ciò che vi fa pensare “Ma c’è qualcosa che non torna”. Il problema è che i deepfake stanno diventando così realistici che presto nemmeno un esperto sarà in grado di distinguere il vero dal falso. E allora? Allora ci affideremo ad altri software per smascherarli e il ciclo ricomincia. Benvenuti nel futuro.

E l’etica, dove la mettiamo? Creare deepfake è giusto, sbagliato, o dipende? È un argomento complicato. Da una parte, questa tecnologia può avere applicazioni utili, come riportare in vita personaggi storici per scopi educativi. Stessa cosa per i testi, audio e tutto il resto. Dall’altra, può distruggere vite in un batter d’occhio. Il problema, come sempre, non è la tecnologia in sé, ma l’uso che se ne fa. E, diciamocelo, il genere umano non ha esattamente un curriculum impeccabile in fatto di responsabilità.

Quindi, cosa ci insegna tutto questo? Che viviamo in un mondo in cui la verità è sempre più difficile da definire. E che dovremmo fare tutti uno sforzo per restare vigili, critici e un po’ meno creduloni. Perché no, il video del vostro attore preferito che confessa di amare il karaoke non è sempre reale. Anche se, ammettiamolo, ci piace pensarlo.

Alla fine, la questione dei deepfake si riduce a una parola: responsabilità.

La tecnologia, di per sé, è neutra. È come un martello: può costruire una casa o distruggerla, dipende da chi lo tiene in mano. Con i deepfake è lo stesso. Sta a noi – come individui, aziende, legislatori – decidere come usarli. Magari sarebbe il caso di chiederci meno “cosa possiamo fare” e un po’ più “cosa dovremmo fare”. Perché sì, è figo vedere Abraham Lincoln ballare il moonwalk, ma se ci svegliamo un giorno in cui non possiamo più fidarci di niente e nessuno… sarà un bel problema. Io, intanto, vado a controllare che non ci sia un video di me che canta “La Macarena” a un matrimonio. Non si sa mai. Anche perchè lo sanno tutti: la mia canzone preferita è La Bomba.

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Deepfake: quando la realtà non basta più